La curatela in tre mosse. Answer Time, I

Sul numero 7 di Artribune Magazine vi abbiamo raccontato le “tre mosse” di Alfredo Cramerotti per interpretare la curatela. Ma quella era solo la premessa, l’impianto teorico, l’invito. Invito, sì, rivolto a un nutrito gruppo di “colleghi”: scegliere tre parole, tre concetti, e raccontare in breve la propria strategia.

BLANCA DE LA TORRE

Mutazione
Curare non ha niente a che vedere con il “fare mostre”, ma riguarda la trasformazione dell’impossibile nel forse e del forse nel possibile. Un curatore deve essere in grado di costruire altre realtà in quel contesto indefinito all’interno del quale favorisce il dialogo con sistemi, strutture e meccanismi diversi. E restare in uno stato di permanente riformulazione.

Autorialità collettiva
Diffondersi in un’autorialità polifonica e collettiva. Non nel senso del diniego della firma dell’artista o del curatore, dell’azione del gruppo artistico o del nascondersi dietro un alter ego. Piuttosto, smorzare la paternità unica e unidirezionale attraverso la partecipazione dei diversi attori coinvolti (artisti, architetti, filosofi, scienziati, critici ecc.), lavorando all’interno di un processo simbiotico, con l’obiettivo di costruire una metodologia collettiva. Applicare le strategie del collettivo.

Conflitto
L’impossibilità di comprendere l’arte senza il conflitto. La tensione è cruciale. Conflitto come effetto in grado di controbilanciare e creare tensione. Conflitto come modo per raggiungere la coscienza. Conflitto come consapevolezza di muoversi in un regno sintetico di natura. Conflitto per sollevare l’azione.

Blanca de la Torre è curatore e head of exhibitions presso l’Artium Museum, Vitoria-Gasteiz, Spagna

Reloading Images La curatela in tre mosse. Answer Time, I

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Glossario
(o come il processo dice sempre qualcosa sul prodotto)
Perhaps only I need a concrete lesson in how problematic an entry on any keyword must be. But I suspect my sisters and other comrades also have at times tended to simply believe what they looked up in a reference work, instead of remembering that this form of writing is one more process for inhabiting possible worlds – tentatively, hopefully, poly-vocally, and finitely”.
(Robinson Crusoe)

Re-
(o come un non-termine possa ricostituire la delineazione della ripetizione come strategia differenziale)
Reproducing. Representing. Reconstructing. Rearticulating. Remembering. Rekindling. Rewinding. Repeating. Relieving. Resisting. Reloading.. Rewriting. Rereading. Retelling. Recreating. Recycling. Replacing. Recapturing. Repairing.
Re-curating.

Traduzione
(o come una forma di trasmissione possa rappresentare il suo stesso tradimento)
In italiano, il termine ‘traduzione’ deriva dal verbo latino ‘traducere’ (condurre, passare, andare oltre). La parola condivide la sua radice con altre due parole: ‘tradire’ e ‘tradizione’ (‘tradizione’, letteralmente “consegna”, dal verbo ‘tradere’, dare, passare, consegnare). Da una parte, la traduzione riguarda l’atto del dare, del trasmettere, del consegnare; dall’altra, questo dare, questo trasmettere, questo consegnare una tradizione si configura come un tradimento.
È per questo che il compito del traduttore è inevitabilmente politico; tradurre diventa una strategia del tradimento, l’unica capace di restare davvero fedele al suo oggetto, forse. Tuttavia, per fortuna, non sarò mai in grado di tradurre parole come ‘mabroumeh’, ‘ballourieh’ o ‘baklava’. Dolce tradimento.

Reloading Images (Kaya Behkalam, Roberto Cavallini, Azin Feizabadi, Carla Esperanza Tommasini) è una entità artistica ibrida e una organizzazione non profitche attualmente lavora sulle intersezioni fra iconofilia e iconoclastia dalle città de Il Cairo, Izmir, Berlino e Trento
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Christine Eyene La curatela in tre mosse. Answer Time, I

Christine Eyene – Dakar, 2012 – photo Antoine Tempé / Picturetank

CHRISTINE EYENE

Curare l’identità: l’auto-rappresentazione
La presenza di curatori africani nel campo dell’arte contemporanea è stata stimolata dal bisogno di riaccendere il dibattito sull’arte africana del XX secolo, un’urgenza che continua anche nel XXI. A partire dalla metà degli Anni Novanta, numerose mostre seminali hanno sfidato la legittimità degli auto-proclamati specialisti occidentali per dare spazio a un gruppo di voci africane in rappresentanza di un intero continente e della sua diaspora.
Curare “l’Africa”, come accade in molti altri campi, è diventata una forma di pratica autobiografica, che echeggia l’identità culturale dei curatori stessi e stabilisce la nozione di paternità, spesso con un’autorità indiscussa in virtù dell’identità dichiarata. Tuttavia, con questa “patente” vengono anche le limitazioni dell’essere intrappolati in un argomento curatoriale, anche se quest’ultimo può essere declinato in diversi temi. Si diventa oppressi dal “carico della rappresentazione”, che può anche diventare il pomo della discordia, a seconda se il curatore vive e lavora in Africa o in Occidente.

Narrativa di genere: analizzare l’identità culturale
Il riconoscimento di gruppi culturali precedentemente non rappresentati ha inaugurato nuovi filoni di politica dell’identità. Decifrare l’identità ha permesso di mettere in evidenza lo squilibrio di genere all’interno dell’arte africana e delle pratiche curatoriali.
Curare il genere, il genere femminile, significa innescare una serie di discussioni specifiche che riguardano le donne artiste africane e i professionisti della diaspora che hanno dimestichezza con il pensiero femminista nero. Entrambi hanno messo in evidenza i limiti di un’unità culturale ostacolata dal patriarcato e ciò che è noto come “i confini della sorellanza”.
Questo approccio curatoriale porta a lavorare su temi come il corpo, la razza, la femminilità, la mercificazione, la sessualità, l’omosessualità e l’abuso, e su un genere performativo di rappresentazione visiva e di Performance Art.

Processo: al di là del soggetto
Una volta che le varie forme d’identità sono state esplorate, in modo da stabilire le filiazioni e radicare il proprio approccio curatoriale all’interno di un panorama esistente, è possibile avventurarsi in modalità più sperimentali di curatela.
Process: immaterial proposal è una fase di ricerca attuale incentrata sul processo creativo piuttosto che sull’opera finita. Questo progetto consiste in una collezione di immagini, elementi sonori e testi inizialmente presentata in forma virtuale su Internet. È nato dalla messa in discussione della nozione di arte africana contemporanea e dall’osservazione degli effetti condizionanti dei temi preannunciati sulla produzione delle forme visuali in alcune biennali africane.
Process vuole esplorare i terreni al di là della narrativa e della rappresentazione. Propone di guardare ai concetti come ad atti creativi e di avvicinarsi alle esperienze sensoriali oltre la fisicità dello spazio espositivo. A monte di questa ricerca c’è l’intenzione di privilegiare l’inaspettato e l’ignoto in opposizione alle selezioni curatoriali predeterminate, e di tratteggiare frammenti di topografie creative nel panorama della pratica artistica internazionale.
Process: immaterial proposal è aperto a tutti gli artisti, indipendentemente dal background culturale. Una prima presentazione di questo progetto si è svolta durante la Dak’Art Biennale 2012.

Christine Eyene è una critica d’arte e curatrice indipendente che attualmente lavora con Autograph ABP di Londra. Ha cocurato “Dak’Art 2012 – Biennale of Contemporary African Arts” eyonart.blogspot.co.uk

a cura di Alfredo Cramerotti

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9

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Alfredo Cramerotti

Alfredo Cramerotti

Alfredo Cramerotti è un critico, curatore e artista di base nel Regno Unito. Il suo lavoro esplora la relazione tra realtà e rappresentazione attraverso una serie di media e collaborazioni tra le quali TV e radio, pubblicazioni, internet, festival mediatici,…

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