Gianluigi Colin, l’art(ist) director

Come è nata La Lettura, il supplemento culturale del Corriere della Sera? Chi decide quali sono le copertine d'artista? E chi si occupa dell'art direction dei prodotti? Tutte le risposte le trovate qui, in questa intervista-fiume con Gianluigi Colin.

L’arte di Gianluigi Colin (Pordenone, 1956; vive a Milano) nasce da una posizione esistenziale e professionale unica. Quella di chi da oltre tre decenni vive, con sensibilità d’artista, la professione di art director dentro il cuore dell’informazione italiana, il Corriere della Sera, influenzando l’identità del primo quotidiano d’Italia.
Un anno fa, insieme al direttore Ferruccio de Bortoli, al caporedattore cultura Antonio Troiano e al suo vice Piero Ratto, Colin crea un progetto editoriale singolare, La Lettura. Si tratta di un nuovo, ricco inserto culturale domenicale del Corriere e si caratterizza per le copertine d’artista create ad hoc, per la novità dei temi trattati e per le opere d’arte usate come immagini privilegiate, capaci d’illustrare meglio di altre le tematiche affrontate negli articoli.
Artista poliedrico ma rigoroso, Mitografie è la sua ultima serie, recentemente esposta alla Fondazione Giorgio Marconi di Milano.

Sul tuo sito compare come incipit una frase di Pablo Picasso: “L’arte è una menzogna che dice la verità”. Usata dall’art director del Corriere della Sera mi incuriosisce: vuoi forse intendere che i mass media sono verità che dicono menzogne?
La citazione presenta la mia ricerca artistica, senza riferimenti al lavoro di art director per il Corriere, e fa riferimento all’ambiguità che caratterizza ogni lavoro artistico. Nell’arte nulla è vero, eppure, avendo l’arte un potere profetico e visionario, quella “menzogna” può trasformarsi in assoluta verità. Carlo Arturo Quintavalle ha scritto in un suo saggio che di giorno io faccio giornali e di notte li distruggo, come una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde.
Certo, il mio lavoro artistico tocca anche il mondo dell’informazione, ma parla soprattutto della sedimentazione del vedere, del tempo, della memoria e ha la funzione di aiutare a riflettere sul nostro presente. Lavoro con lo stesso spirito di un archeologo che preleva e conserva segni, parole e immagini che altrimenti sparirebbero nell’oblio.

GIANLUIGI COLIN 2 Gianluigi Colin, l’art(ist) director

Gianluigi Colin

Che idea ti sei fatto, in questi trent’anni, dei mass media?
Il mondo dell’informazione è dentro il mito contemporaneo: noi pensiamo di sapere tutto, di essere informati su ogni cosa e crediamo di poter comunicare con chiunque attraverso le nuove tecnologie. In verità non sappiamo niente, perché il mondo costruito attraverso questi media è un mondo artefatto, strumentale, di finzione. E in più è un mondo in cui abbiamo l’illusione di essere al centro di un universo di relazioni per scoprire che invece siamo sempre più soli, incapaci di guardare negli occhi una persona di parlargli sottovoce, di ascoltare il tono della sua voce e il battito del suo cuore.

Sei una colonna portante del Corriere della Sera, art director e responsabile dell’immagine. Ti occupi di critica della fotografia e scrivi di design. Sei giornalista ma sei anche, e soprattutto, un artista che ha il raro privilegio di portare la propria sensibilità artistica a un certo grado di influenza. Mi viene in mente che nel ’68 si invocava “l’imagination au pouvoir” sui muri della Sorbona a Parigi. Come dialogano tra loro le tue identità e qual è il perno attorno a cui ruota il tutto?
Ho sempre coniugato molti interessi, sin da ragazzo: fotografia, grafica, scrittura, giornalismo. Credo di essere una persona che vive una molteplicità d’identità e che tenta di esercitare con rigore questi diversi ruoli. Cerco di rispondere soprattutto alla mia coscienza, sia in campo giornalistico che in quello artistico. La relazione tra questi due mondi provoca uno scambio di energie che fa bene a entrambi.

la lettura Gianluigi Colin, l’art(ist) director

La prima copertina de La lettura

Facciamo un esempio.
Al Corriere, con il direttore Ferruccio de Bortoli e con Antonio Troiano e Piero Ratto, responsabili dell’inserto culturale La Lettura, abbiamo cercato di portare un dialogo più profondo tra il mondo dell’informazione e l’arte contemporanea. Penso che ciò abbia un valore etico e possa alimentare la crescita culturale in un Paese come il nostro. In questo caso si è creata una coesione profonda tra il mio lavoro di “inventore di pagine” e la mia identità artistica, una relazione strettissima che arricchisce il giornale e a me regala interessanti stimoli ed esperienze.
Le copertine d’autore de La Lettura hanno stabilito un rapporto nuovo tra il mondo dell’informazione e quello dell’arte: un rapporto sinergico di dialogo e reciproco sguardo. Prima de La Lettura questo mancava. È un progetto unico. Fa sì che l’arte, spesso vissuta come qualcosa di elitario e distante, entri nelle case di moltissimi italiani, che possono così scoprire, magari per la prima volta, i lavori di artisti come Ai Weiwei, Anselm Kiefer, Michelangelo Pistoletto, William Kentridge, Marcello Jori. E di tutti gli altri artisti che abbiamo pubblicato.

Il tuo atelier è molto particolare. Dovunque colonne di libri e pubblicazioni di ogni tipo, fotografie alle pareti, fogli e giornali dappertutto. Sembra un caveau di immagini. Cosa ci fai dentro?
Il mio atelier è in qualche modo non solo il mio ufficio ma l’intero Corriere della Sera, straordinaria fonte d’ispirazione. Qui vedo ogni giorno circa 5mila fotografie: il mio sguardo è sommerso da immagini, figure, titoli. Incontro molte persone, colleghi che entrano nella mia stanza e mi sollecitano risposte su problemi legati alle notizie, alle pagine, alle fotografie da trovare, ad articoli da scrivere.
Tutto ciò ha inciso sulla mia visione del mondo, sul mio modo di fare arte. Mi basta una di queste immagini per sollecitare collegamenti, una foto per evocare un ciclo di lavori. Una delle mie prime ricerche, nel ’97, chiamato Presente storico, è nato qui, in questo modo. Ho messo in relazione e sovrapposto icone della fotografia di reportage con i grandi dipinti della storia dell’arte. Un lavoro sul senso del tempo e sulla Storia, che drammaticamente riproduce le stesse figure del dolore.

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Gianluigi Colin

E ne è venuto fuori il ritratto di una civiltà, la nostra, in cui l’immagine satura lo sguardo…
Lavorare artisticamente in questo contesto significa anche dire: fermiamoci, altrimenti non comprendiamo quel che accade. L’arte ti può fornire uno straordinario antidoto contro la disattenzione, il cinismo, la dimenticanza. L’arte diventa così un momento di riflessione altra rispetto alla quotidianità che consuma tutto. Siamo assuefatti alle immagini e alle notizie: non riusciamo più a leggere nulla, non vediamo più nulla. Come diceva John Berger, è solamente questione di sguardi.

La tua ultima personale alla Fondazione Marconi di Milano, intitolata Mitografie, vede come fonti primarie il quotidiano come veicolo di notizie, immagini, pubblicità e quindi valori e messaggi etici.
Non credo nell’arte puramente estetica. Mi piacerebbe avere a casa un Matisse perché mi dà gioia, però credo in un’arte che, pur non essendo politica, possa raccontare qualcosa. Per questo motivo lavoro per cicli e non per singole opere. Mitografie è iniziato al Madre di Napoli ed è proseguito all’Ivam di Valencia ed è poi approdato alla Fondazione di Giorgio Marconi: rappresenta una dimensione di cui tutti noi siamo vittime senza rendercene conto. Una serie di miti condizionano la nostra vita quotidiana. Si inseriscono nella nostra esistenza in modo sottile e sono i tiranni dell’anima. Prendi il mito della bellezza: dietro la chirurgia estetica dilagante si cela il mito dell’eterna giovinezza, di una bellezza che subisce il mito imposto dalla pubblicità e dalla moda.

torre babele Gianluigi Colin, l’art(ist) director

Gianluigi Colin – Torre di Babele

Poi c’è Marte, il mito della guerra.
E della supremazia necessaria dell’uomo sull’uomo, dell’affermazione economica e politica. Il mondo dell’informazione riporta la cronaca dei conflitti senza entrare nel merito dei perché. Poi c’è Saturno, il mondo di Cronos e di Goya, del Titano che mangia i propri figli per paura di essere deposto. È un altro dei punti centrali della nostra società: il potere che uccide i propri figli, come avviene anche nella nostra politica. Per ultimo c’è Mercurio, messaggero degli Dei, ma anche il dio del commercio e dei ladri.

Vincenzo Trione ha scritto che tu “estrai frammenti senza origine”. In effetti, i riferimenti narrativi si perdono e le icone che crei sembrano derivare da un “corpo a corpo” con il quotidiano, con la sua carta da rotativa. Come ti coinvolge il lato più “carnale” delle opere di Mitografie?
L’idea della materia è sempre stata dentro il mio lavoro, più o meno inespressa o codificata. Ho iniziato dipingendo, poi sono passato con la fotografia, ma tutto il lavoro sulla memoria, che ho chiamato Vie di Memoria e che ho realizzato in un dialogo con il pubblico, è iniziato con un intervento manuale, anzi, propriamente “carnale”. Creavo manualmente fotocopie davanti al pubblico, con le persone che toccavo, distendevo anche sulla piastra di una fotocopiatrice. Fotocopiavo insieme a oggetti cari, lettere, fotografie e altro, anche corpi, braccia, volti.
È stata un’operazione corale. Ma soprattutto, è stata un’esperienza umana straordinaria, una specie di psicoanalisi di gruppo mediata attraverso un semplice gesto artistico. Negli ultimi lavori sentivo poi la necessità di una terza dimensione. Mitografie hanno per me una forza scultorea, hanno tridimensionalità con questa sedimentazione di carte che richiede un attento lavoro fisico. Devo distendermi sopra le opere per creare questi accartocciamenti.

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Gianluigi Colin

Ne La Lettura usi l’arte come se potesse essere un una specie di esperanto visivo. Com’è nato questo progetto?
Nel panorama degli inserti culturali in Italia c’era sostanzialmente solo il Domenicale de Il Sole 24Ore. Si sentiva la necessità di un nuovo progetto: l’ambizione era coprire questo spazio dando più attenzione al mondo dell’arte, ai nuovi media, al mondo dell’editoria, ai nuovi linguaggi, ai beni culturali, ma soprattutto alle analisi delle trasformazioni della nostra società. La Lettura è trasversale, tocca molti ambiti, facendo dialogare più mondi e soprattutto cerca di stimolare più curiosità e interessi. Vuole essere il più vicino possibile al mondo della contemporaneità. L’arte in copertina rappresenta in termini sintetici questa vicinanza. La Lettura è un tentativo di raccontare, aiutando a comprendere, i grandi temi che caratterizzano il nostro tempo.

Sono felice che sia tu a dirlo. Spesso si parla d’arte in termini di economia, di costruzione delle carriere, di successo. Un approccio che sta avvelenando le giovani menti artistiche. Tu invece la usi come mezzo espressivo, estetico, (in)formativo. Mi pare una visione auspicabile, moderatamente neoromantica.
Ma anche molto laica, che nasce da un lavoro di squadra. Intorno all’arte c’è un potente sistema economico, ma La Lettura ha un totale distacco da questi interessi. In ogni senso. Gli artisti collaborano gratuitamente con noi, le opere rimangono di loro proprietà. Qualcuno generosamente le ha donate al giornale. La scelta degli artisti nasce da una sensibilità collettiva, la maggior parte delle scelte è mia, ma è sempre il direttore ad avere l’ultima parola. Appaiono polarità diverse e opposte, da Ai Weiwei a Botero. Non c’è una preclusione ideologica. Dietro ogni cover non ci sono interessi di carattere economico e non ci sono lobby, ma solo il desiderio di dialogare con i lettori attraverso le opere di artisti, architetti, stilisti e designer.

mantegna Gianluigi Colin, l’art(ist) director

Gianluigi Colin – Mantegna

Ne I disastri della guerra hai fatto riferimento a Goya per comprendere e far comprendere l’orrore della guerra in Iraq. Credi che l’arte possa narrare e sensibilizzare meglio e più a fondo di quanto non facciano i mass media con la loro potenza di fuoco?
Un esempio interessante viene da Roberto Saviano. E dal suo libro Gomorra. Ogni giorno i media riportano notizie che mettono in luce i legami fra Stato, mafia, camorra, interessi economici e altri mondi. Però il cambio di attenzione in merito a queste realtà passa nel momento in cui quegli stessi fatti vengono raccontati in un contesto diverso, con un media inaspettato. Non più una pagina di giornale, ma un libro o un film. Aveva ragione McLuhan: il media fa il messaggio. Il luogo cambia il senso, vale anche per l’arte. Duchamp ce l’ha insegnato molto bene quando ha portato un orinatoio in un museo.

Se leggi la notizia su un giornale non basta.
L’accetti come un dato di verità, ma sei portato a rimuoverla perché il giornale dura 24 ore e sembra che anche la realtà che racconta duri anch’essa 24 ore. E poi siamo assuefatti, disattenti, stanchi. Quello che conta è il senso della durata. È quanto dicevo prima in merito alla mitologia: pensiamo di sapere tutto ma un eccesso d’informazione porta a non sapere più nulla. L’orrore dei bombardamenti nazisti su Guernica è stata registrata per sempre dall’opera di Picasso. Gli orrori dell’occupazione francese in Spagna sono stati immortalati dalle incisioni di Goya. La disperazione dei profughi in mezzo al mare è stata fermata per sempre da Géricault nella Zattera della Medusa. Le parole, per quanto importanti, non hanno la stessa forza evocativa delle figure. E l’arte porta al superamento del tempo, in qualche modo, all’immortalità.

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Gianluigi Colin

Però anche le immagini sono in sofferenza oggi. Lo chiedo al critico della fotografia.
La grande crisi della fotografia di reportage va di pari passo con la crisi della carta stampata. Ora, purtroppo, non c’è più un sistema giornalistico capace di investire sulle fotografie di qualità. E allora i fotografi, dai giornali approdano alle gallerie. Non pubblicano sulle riviste, fanno libri. Solo alcuni premi come quello del World Press Photo, per citare il più noto, fanno emergere il valore dell’immagine innalzandola a icona. I giornali le pubblicano tutte, ma poi ci vuole una mostra che le porti fuori dallo spazio dell’informazione e dentro una galleria d’arte. È una questione semantica.
Anche qui il cambio di collocazione fa cambiare la percezione dell’immagine. Nella mia ricerca I disastri della Guerra o in Presente storico ho messo in relazione le icone del passato con le fotografie del nostro presente, per dire che il percorso di dolore dell’umanità è sempre lo stesso. Il premio Nobel Elias Canetti ha scritto: “La cosa più dura è scoprire quello che già si sa”. Aveva ragione.

Nicola Davide Angerame

www.colin.it

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Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame è filosofo, giornalista, curatore d'arte, critico della contemporaneità e organizzatore culturale. Dopo la Laurea in Filosofia Teoretica all'Università di Torino, sotto la guida di Gianni Vattimo con una tesi sul pensiero di Jean-Luc Nancy, inizia la collaborazione…

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